Nel 1952, una significativa campagna di scavi a Villa Adriana, condotta dall'archeologo Salvatore Aurigemma, portò alla luce numerose statue, tra cui le famose copie delle Cariatidi dell'Ereteo. Questi scavi si concentrarono principalmente nell'area del Canopo, dove furono scoperti anche elementi architettonici e decorativi, come stucchi e mosaici.
Così vengono descritti quegli scavi in un articolo apparso nell'agosto del 1952 su "La Stampa"
Gli scavi in corso, i singolari ritrovamenti di statue accrescono il mistero di Villa Adriana. Mistero archeologico, giacché appaiono sempre più legittimi i dubbi se l'antico dominio agreste dell'imperatore fosse davvero una sorta di «antologia » dei capolavori architettonici greci ed egizi come le ricostruzioni del Piranesi, infiammato di classicismo, hanno sempre fatto pensare. Si può credere al contrario che vi fosse, in quel favoloso < parterre > di Adriano, uno slancio di audacia stilistica senza precedenti nella storia dell'arte latina.
E' curioso che i turisti non amino o almeno non apprezzino al punto giusto Villa Adriana: Tivoli, per la gran maggioranza dei visitatori, si compendia nelle cascate di Villa d'Este, il cui splendore non è scevro da una geometria rigida. Villa Adriana, ai piedi del colle tufaceo, apre invece un orizzonte di libertà e di poesia, precluso ad ogni altro monumento romano.
Greggi di pecore pascolano fra le colonne mutilate; nasce l'erba sulle scalee d'alabastro. Nessun luogo na conservato come Villa Adriana l'amara bellezza dell'Agro, quale apparve agli occhi di Goethe.
Detto ciò, è necessario ribadire che la condizione attuale della villa suggerisce in modo estremamente imperfetto la fisionomia del palazzo di Adriano, così com'era centrotrenta anni dopo Cristo. Il teatro greco, conchiglia scavata nella roccia, appare in uno stato di conservazione relativamente buono, ma chi può presumere quale fosse l'aspetto preciso del teatro latino, del quale restano poche macerie? Si sa che gli architetti dell'Imperatore definirono « Valle di Tempe » la forra boscosa che strapiomba sulla Palestra e si compiacquero di ribattezzare Peneo il torrentello che l'attraversa; ma come giurare che il Pecile l'Atene di Pericle?
Probabilmente non sapremo mai quel che Adriano profuse, e a quali cànoni si attennero i suoi amici architetti, per fare, del parterre alle pendici di Tivoli, la meraviglia che oscurasse il fasto dei satrapi. Lo Stadio, il Teatro Marittimo, l'Accadema, le Terme, l'Atrio dorico, il Cortile delle biblioteche, la piazza d'oro, il Ninfeo non sono che nomi: per dieci secoli gli uomini hanno lavorato ad asportarne i marmi preziosi, a trafugarne le statue.
Le guide ripetono ai turisti che « se oggi il Presidente degli Stati Uniti volesse ricostruire, in un parco immenso attorno alla Casa Bianca, tutti gli edifici più illustri del mondo, da San Pietro alla Torre Eiffel all'Empire State Building alla moschea di Santa Sofia, si avrebbe solo una idea pallidissima di ciò che fosse la villa Adriana ...
Viene da sorridere: e qual guida, del resto potrebbe illuminarci su quel che significava, politicamente non meno che psicologicamente, un'opera d'arte cosi complessa ed ecumenica per il più orgoglioso degli imperatori? Adriano non potè godersi la villa dolcezza della sua vecchiaia, il monumento con cui, senza dubbio, aveva inteso celebrare l'universale felicutà connessa alla pace romana Lo ghermì la morte sulla sponda di Baia; scrisse Pio II, visitando dopo tredici secoli le rovine di Tivoli: «L'edera veste quei muri che arazzi istoriati e drappi tessuti d'oro paludarono: gli spini e i rovi sono cresciuti dove i tribuni porporati si assisero; i serpenti abitano le camere delle regine: tanto caduca è la natura delle cose mortali ». Che ora si scavi a Villa Adriana è dunque, in un certo senso, una guerra contro la morte.
Si scava lungo il Canopo, costituito da un'ampia valle artificiale, dove un tempo correvano le acque e che imitò, avesse davvero un tal nome, dicono, la città di Canopo sul derivato dello Stoà Poikile del Nilo luogo di piacere degli alessandrini e celeberrima nel mondo antico: la Canopo di Tivoli superava quella egiziana in grandezza e splendore. Oggi la ricopre la terra. Cento sterratori, secondo i piani del sovraintendente Aurigeinma, si alternano a dissodare l'uliveto miracoloso. Qui, tra la fine di luglio e l'inizio di agosto, sono emerse le prime statue: un Sileno, una donna di tipo ercolanese, una Minerva guerriera.
Poi, un pomeriggio afoso, sono apparse quattro cariatidi. Gli operai sentirono il piccone urtare contro la pietra; avvisarono l'assistente Felici. Felici non è che un geometra, tuttavia conosce minuziosamente l'arte classica, e ad Atene, dove prestava servizio durante l'occupazione, aveva trascorso sull'Acropoli la maggior parte delle sue ore libere. Quando gli uomini ebbero tratto alla luce le statue, il cuore gli tremò: aveva riconosciuto il fulgore gialliccio del marmo pario: le quattro figure muliebri erano la copia esatta delle Canefore dell'Eretteo. Lo stesso manto arcaico, dalle pieghe leggere come l'aria, drappeggiava le loro forme di giovinette. Le mani, quelle mani che le Canefore di Atene hanno mutile reggevano « patere ombelicate », armoniosi piatti rotondi.
Nei prossimi giorni o nei prossimi mesi verranno, si pensa, le « rivelazioni ». Emergono per ora colonne e basi di colonne, tali da indurre a credere che non una scalinata, come immaginavano il Piranesi e Pirro Ligorio, ascendesse al tempio di Serapide parallela mente al braccio fluviale, ma un doppio ordine di colonne. Si può ritenere, da certe lastre di marmo, che una lunghissima traccia fiorita segnasse il cammino ascensionale del colonnato: e sarebbe un esempio unico, per quanto se ne sappia, nell'architettura romana, con una folgorante vena di quella « follia » che i nemici di Adriano rimproveravano all'Imperatore.
Carlo Laurenzi