lunedì 4 luglio 2022

Il cardinale Ippolito d'Este e la sua villa.

Una lettura tratta da "L'album, giornale letterario e di belle arti" Anno XII n.29 del 13 settembre 1845  in cui si parla del Cardinale Ippolito d'Este e della sua villa in Tivoli a quel tempo ormai in decadenza.


In Tivoli nella chiesa di s. Francesco in troppo modesta tomba giacciono le ceneri del Cardinale di Ferrara, Ippolito, uomo di tanta virtù, che se fosse sorto da ignobile e oscura famiglia, l’avrebbe egli stesso innalzata a sommo splendore. 



Nato nel 1509 da Alfonso I e dalla famosa Lucrezia Borgia,  ancor giovanetto prendeva parte nel governo dello stato col padre, che il volea seco e quando riceveva ambasciatori e quando deliberava della pace o della guerra. Quantunque di pochi lustri avea maturo senno; e presso la corte di Francia venne tosto in molta riputazione, così che Francesco il re teneramente l’amava e venerava non per la nobiltà e grandezza della famiglia, a cui apparteneva, ma per una scienza speciale in trattare affari di stato; onde in quell’amplissimo regno nessuna cosa intraprendevasi se non dopo il consiglio e la deliberazione di Ippolito, il quale fu in egual stima presso Enrico II. Già arcivescovo di Milano, poscia di Novara nel 1538 veniva da Paolo III esaltato alla sacra porpora, e promosso all’arcivescovado di Ferrara.

Fu governatore di Siena a nome della Francia, legato a latere in Germania amministratore degli arcivescovati di Lione Aux Narbona , dei vescovati di Orleans, di Autun, Morienna e di altre abbazie di cui godeva le prebende. Rinunciato alla sede arcivescovile di Ferrara, veniva a Roma, dove fu nominato governatore di Tivoli.  Facea il primo ingresso in questa città l’anno 1550 accompagnato da duecento e più persone, delle quali ottanta distinte, come quelle che si componevano di arcivescovi, vescovi, prelati, conti, marchesi, baroni e cavalieri. Intorno a questo porporato così favellava il Mureto nella latina orazione, ch’ei recitò nel settembre del 1772, in occasione dei di lui funerali: 

" Chi fu mai in ogni genere di vita più splendido e magniflco di lui ? Quanti sontuosi edificii non innalzò in Francia e in Italia ! Quante cose cosi ingegnosamente create dal genio degli antichi ma poscia per incuranza dei posteri lasciate nell’oblivione, non dissotterrò ? Quanti illustri artisti, non eccitò co’ premii a cose nuove ? Qual principe, qual legato, qual grande e illustre uomo fuvvi mai appo lui, che non sembrasse accolto più che da un splendido cardinale, da un re potentissimo? E quanto liberale et munifico ei fosse inverso i poveri, voi il sapete, o tiburtini, che ricordate, le continue e giornaliere elemosine, com’egli ogni anno, sviluppandosi, siccome avviene, le malattie nel volgo, fosse solito mandare giornalmente persone a visitare le case di ogni ammalato « con ordine di far mancare nulla di ciò che stimavasi necessario per tornarli in salute, o per alimentare intanto la famiglia. Nessuno più di lui amò cosi ardentemente gli uomini dotti e i letterati; nessuno n’ebbi li più dì lui un numero si grande alla sua corte; nessuno più di lui trattolli generosamente. Coi loro discorsi condiva le sue cene, e con loro passava le ore libere da pubblici negozii. E verso loro, i suoi dipendenti e famigliari era di tanta domestichezza, che a tutti sembrava un eguale. Con essi famigliarmente favellava, « li urbanamente scherzava: i colpevoli correggeva con paterno amore, più che con fiero cipiglio, e impero. Nessuna cosa più facilmente dimenticava, che le ingiurie, noi che abbiamo con lui vissuto, sappiamo che molti li quali aveano con ingiurie corrisposto ai molti beneficii, mentre senza molestia, e a suo arbitrio potea punirli, ricolmò di nuove beneficenze. Prove di sua pietà e religione inverso Dio diede in tutto il tempo di sua vita, e specialmente sugli ultimi momenti di sua mortal carriera: sentendosi appressarsi l’ora estrema, di nulla atterrito, chiamò il sacro ministro, e a lui confessò le colpe, di cui n’ebbe grande pentimento, e mostrò aver ogni sua speme collocala nella divina bontà e misericordia"


Ettore Roesler-Franz, La scala di accesso al Palazzo e i Giardini di Villa d’Este, 1845

E monumento della magnificenza del cardinale di Ferrara, cosi chiamalo dalla storia per distinguerlo dal cardinale suo zio, ch’ebbe lo stesso nome, si é la grandiosa villa fatta in Tivoli, la quale gli portò un dispendio di un millione di scudi romani. In essa ei rinnovò la grandezza delle ville antiche, che sorgevano in questi pittoreschi colli. ma la grandiosa villa, non è più come le antiche, che rovine. La sua vista ha una melanconia, che non sai descrivere, ma che ti commove più degli altri avanzi d’un tempo, di cui poco a poco perdiamo le tracce attraverso il torrente dei secoli. L’aspetto d’un uomo che muore più vivamente colpisce, che l’aspetto d’uno scheletro polveroso e già imbianchito ai raggi del sole: ecco perchè la villa Estense più ti attrista; i suoi avanzi sembrano avere ancora un palpito di vita, come tali gli descrivo. Se tu entri in essa, dalla parte inferiore, per la porta, che mette alla via del colle, l’antica via romana, ti si offre innanzi un’ombroso viale, che ne forma l’ingresso; più innanzi una triplice gradinata, che mette ai diversi piani del grandioso palagio, la cui facciata non ebbe di certo mai compimento. Tu vedi ancora la fonte dei Draghi, chiamata anche Girandola, lavorata con sommo magistero, se consideriamo il tempo, dal tiburtino Olivieri; e tale era lo strepito, quando gettava acqua che sembrava scoppiasse il fulmine: vedi la fontana della Natura, un tempo adorna di statue, e fatta in modo, che facea suonare un’organo armonioso. Arrestati a’ piedi della gradinata, quivi si apre un viale largo sedici palmi e lungo seicento; dalla parte superiore vi osservi piramidi, barchette, cippi e aquile marmoree, dalla cui bocca, escono ancora, secondo il volere del custode, fresche acque, che vi formano piacevoli scherzi. Quivi in stucchi maestrevolmente lavorati erano rappresentate le varie azioni delle Metamorfosi di Ovidio; ma ora ogni stucco è guasto e dalle intemperie, dalle acque della fontana, che vi hanno formato il mu-schio, e forse anche dalla mano di qualche ingordo straniero. Se volgi alla tua destra, in fondo al viale, in piacevole altura entri per sconnesso cancello in breve recinto, dove sorgono i principali monumenti di Roma antica, dalla Lupa fino al Panteon: vedi la statua rappresentante il Tevere, che versa acqua dall’ampio vaso, e in mezzo una isoletta, a cui un’obelisco forma l’albero, e quattro tempietti rovinati erano ornamento. Dalla parte opposta del viale arresti lo sguardo sopra grandiosa fontana, detta dell’Ovato, la quale sovente ammirava e contemplava il Bonaroti. Sopra una rupe di tartari e pietre spongose s’erge il pegaseo cavallo, a cui piedi scorrevano in bei zampilli le acque ipocranie. Nel suo vano, che ti presenta l'aspetto d’una grotta, vedi l’alto colosso della fatidica Sibilla, che posa sopra un fanciullo, e che ha al di sotto le statue rappresentanti due fiumi, di cui uno certamente il ceruleo Aniene. Tra i massi e le statue, alcuni amorini, che piacevolmente scherzano colle loro ampolle; e in appositi fenestroni le Najadi che versano acqua; in fondo poi la grande vasca, nel cui mezzo sorgono Delfini. Frondose piante ombreggiano questa fontana, il cui aspetto è ancora imponente.

Nelle sale del primo piano del palazzo ammiri i mediocri affreschi degli Zuccari, riguardanti la maggior parte patri avvenimenti favolosi, come sarebbe quello di Anio che si precipita nel fiume, a cui da il proprio nome, per la disperazione di non aver potuto trovare la figliuola Galeà rapitagli dall'innamorato Cateto. Per un corritoio, ove miransi tre secche e bizzarre fontane arrivi alle scale che mettono al piano superiore, e in queste aule trovi migliori gli affreschi dallo stesso pennello lavorati, e belle cacce dipinte dal Tempesta. In questa stanza scrissero Tasso, il poeta della sventura, Manuzio, il grande tipografo e letterato, Girardi e Caleagnini, Mureto e Cavalcanti, Vasari, e in tempi posteriori il troppo infelice Fulvio Testi, che forse vi incominciava il suo dramma dell'Arsinda, dove celebra le virtù di Zenobia morta sui colli tiburtini; ma quel dramma manca dell’ultimo atto per morte del poeta. Raccogliete tutti i nomi de’ letterati, che qui si trassero all’ombra della magnificenza del cardinale Ippolito, e del nipote suo Luigi, anch’egli poscia porporato e avrete una storia.

La villa d’Este non ebbe una durata d’un secolo; in si poco tempo cadeva in rovine, nè a salvarla da peggiori guasti valgono i restauri, che vengono fatti per ordine del regnante duca di Modena, che vi è il proprietario. Piena un tempo di strepito, ora é silenziosa; non odi che il garrire degli augelli, che in gran copia posano sugli alti e mai custoditi pini, cui guasta il forte sofiare del vento, il quale egualmente fischia sotto le vòlte del palazzo: l’aere a poco a poco cancella gli affreschi che adornano le stanze, e come fosse troppo lento il tempo in questa dolorosa operazione, corse in aiuto la mano dello straniero, che nella stolta ambizione di scrivere dovunque con incancellabili lettere il proprio nome, con chiodi e stili ha contaminati e rotti molli fregi e molte figure. Credendo di fasciare ricordanza di essere ammiratore di arti, lasca piuttosto memoria di un nefando vandalismo, e il vero ammiratore detesta quella mano audace. L’umidità ha tinto in verdastro le pareti, che cosi vanno perdendo i loro ornamenti: molte fonti non mandano più uno zampillo d’acqua: i viali disegnati con si bell’armonia non hanno più un raro fiore; sono ingombri soltanto di erba, su cui cammini quasi per soffocare il rumore dei tuoi passi. Scomparvero le statue di Leda, di Marte, di Ercole, di Diana, e cento altre; e di molte non restano più tampoco i piedestalli.

Una cosa imponente mai sempre presenta ancora la villa d’Este: la veduta, che si gode stando sulla più elevata loggia: collo sguardo cerchi Quintiliolo, monte Gennaro, decantato come gigante, ma pigmeo a fronte delle alte mantagne dell’Alpi; miri Monticelli col diroccato suo castello s. Angelo, che siede sopra un monticello egualmente elevato in fondo il Soratte, che ricorda Orazio, e Virgilio, Apollo e la dea Feronia, s. Silvestro e s. Oreste. Giù al basso della città vedi la creduta villa di Mecenate; dalla tua sinistra il sepolcro dei Plauzi e la villa Adriana: e di fronte il lago della Zolfatura, un tempo cinto da Terme, e ora deserto, e senza un rudere; e finalmente la spaziosa campagna romana, a mezzo cui vedi torreggiare Roma. Deserta è la campagna romana, ma piena di memorie: io rimossi da lei lo sguardo esclamando col poeta :

"Salve magna parens frugum, Saturnia Tellus, Magna virum"

(Salve terra di Saturno, grande genitrice di frutti e di uomini, Virgilio, Georgiche)

e dato un addio alla villa Estense, corsi alla villa Gregoriana per contemplare le meraviglie dell’Aniene, e per leggere antiche epigrafi recentemente scoperte.